Fabrizio De André. Il rampollo della alta borghesia, di famiglia repubblicana. Non ci pensiamo mai, ma la lunga scia di ribellioni che attraversa la storia d’Italia (anarchici, antimilitaristi, anticlericali…), e che in Fabrizio De André aveva trovato uno dei propri cantori, comprende a pieno titolo anche i repubblicani. Il padre portava con sé il piccolo Fabrizio ai comizi nella Genova operaia, e possiamo immaginare come veniva accolto, e da lì, dicono, nacque la paura che Fabrizio De André aveva ad esporsi in pubblico, i suoi rari concerti, le poche tournée, anche quando i cantautori riempivano gli stadi.
Fabrizio De André come il suo conterraneo Eugenio Montale. Semplicemente il più grande. Il rampollo della alta borghesia che canta ciò che non siamo ciò che non vogliamo: disertori, libertine, impiegati ribelli, clienti di prostitute, De André non ha mai raccontato la prostituzione, se non dal punto di vista dei clienti, che non sono gigli ma pur sempre figli e vittime di questo mondo. Stavano in una galleria di tipi umani che parte dalla Antologia di Spoon River e arriva fino a Alvaro Mutis passando per i Vangeli. L’identificazione con i perdenti, il bisogno di attenzione e di affetto troppo per essere soddisfatto, l’indimenticabile sarcasmo (“Lo sa che io ho perduto tre figli? Signora lei è una donna piuttosto distratta”). Incontravi De André nell’adolescenza e scoprivi la letteratura. Prossima fermata Bukowsky e Rimbaud. E poi.
Fabrizio De André che piaceva a tutti e non amava nessuno. Il sogno di ogni adolescente, appunto. I fascisti stravedevano per l’album con l’indiano in copertina. Ai ciellini piaceva, vai a sapere perché, “Rimini”. Probabilmente credevano che se Teresa dagli occhi secchi avesse letto i libri di don Giussani forse si sarebbe fatta mettere ugualmente incinta dal figlio del bagnino, ma sicuramente non avrebbe votato per difendere la 194. Per noi di sinistra De André, non ancora Faber, solo De André, era ovviamente, istintivamente, uno di noi. Antimilitarista con “La guerra di Piero”, per esempio. “Canzone di Maggio” descriveva il Sessantotto, quello che tutti aspettavamo accadesse di nuovo. E poi in “La domenica delle salme” descriveva Renato Curcio come un carbonaro! I comunisti facevano sempre un po’ fatica a collocarlo nel loro Pantheon, ma perché De André non dice mai che vota comunista! ti veniva da pensare… ma poco male, quando usciva una chitarra c’era sempre qualcuno che a un certo punto suonava qualcosa di De André. E cantavano tutti.
Fabrizio De André che attraversa decenni di storia d’Italia a testa alta e vince sempre la sfida del delicato equilibrio tra musica e parole che compone le canzoni. Si tratti di lui che strimpella con la chitarra, o del sontuoso concerto prog con la PFM, un incontro tra giganti, il più grande gruppo rock italiano e il più grande cantautore italiano, il raffinatissimo folk di Crêuza de mä, le parole, proposte e riproposte, sono quelle che ti restano in mente, qualunque siano la musica o gli arrangiamenti. Che poi, che cazzo sono gli arrangiamenti. Lo leggevi nelle note del disco e non avevi il coraggio di chiederlo.
E’ uscito a testa alta anche dal sequestro, a pensarci bene. Il ricco cantore dei perdenti e del sottoproletariato, vittima della sua stessa ingenuità (ai rapitori pare avesse detto “Se è uno scherzo mi sembra un attimino macabro”). Avrebbe potuto finire in maniera ben peggiore, per lui, per la moglie, per la sua reputazione. Ci ha scritto una canzone. Poi ha firmato la grazia, per la “manovalanza”, non per i mandanti.
Fabrizio De André e quella maledetta coltellata, Sidun, ancora più dolorosa perché racchiusa dentro un gioiello, Crêuza de mä l’impossibile e riuscitissimo matrimonio tra dialetto e canzone d’autore, idea che ha ispirato generazioni di musicisti, e qui i nomi si sprecano, dai Pitura Freska ai Lou Dalfin, e scusate se non scendo a sud, c’era anche qualcosa di nordico e riservato in Fabrizio De André. Peppe Barra non ha cantato “Bocca di Rosa”, la ha trasformata in una canzone napoletana. Da De André ha preso le parole, non l’ispirazione.
Sidun è stata una coltellata, una canzone che era una calunnia, quella degli israeliani autori del massacro di Sabra e Chatila, calunnia rafforzata dalla poesia. In un disco dedicato alla civiltà mediterranea gli unici ebrei che parlano erano soldati israeliani, poco più grandi di me. Con addosso il marchio di assassini, e la chiamata in correo per gli ebrei italiani. Purtroppo quel brano straziante non è solo un episodio. Noi ebrei a De André stavamo proprio sul cazzo. Direi che stiamo sulle palle quasi sempre a tutta l’alta borghesia italiana, quindi ci deve essere qualcosa di famiglia. Vai a sapere. De André ti spingeva ad avere pietà degli assassini ed aveva compassione persino delle guardie, che accompagnano malvolentieri la prostituta alla stazione. Da poeta vede e ti fa vedere l’umanità sepolta anche dentro ubriachi, blasfemi e giudici carogna, ma da quella umanità noi ebrei siamo esclusi. Ci sarà stato un Piero persino nelle SS, un soldato tedesco che rifiuta di sparare al nemico, pensi. I soldati di Israele no, quelli sono mostri. Quei giovani soldati israeliani erano i figli e i nipoti dei farisei del disco ispirato ai Vangeli apocrifi, vecchi perversi che si tengono una giovane nel Tempio per il loro sollazzo, ipocriti che sanno a memoria il diritto divino ma scordano sempre il perdono. Con il fan di Guccini che canta Auschwitz e la dedica ai palestinesi ci puoi parlare. Ma cosa fai quando la poesia di De André ti esclude, con la forza della teologia, dal novero degli esseri umani?
Fabrizio De André e quel funerale nella basilica di Carignano, la chiesa delle famiglie patrizie genovesi. Dentro, parenti ed amici. Fuori una folla, lo stendardo di Genova, il drappo nero degli anarchici, e la bara portata dal nipote avvocato e dal figlio ribelle in occhiali da sole, che fa venire in mente tragedie quando lo vedi, (l’impossibile vita del ribelle contro i ribelli…) Attraversano una folla plaudente di migliaia di persone, tra cui volti noti, come si dice (Paolo Villaggio, Vasco Rossi, Giovanna Melandri…), ma soprattutto italiani di tutte le età e classi sociali, comprese prostitute e malavitosi, che perdevano uno dei loro cantori.
E il giorno dopo quel funerale Fabrizio De André è diventato Faber. E ha smesso di piacermi. Salvini vuole arruolarlo nella Lega? Faccia pure. Prima o poi passerà anche Matteo Salvini. Fabrizio De André, autore molto più complesso e raffinato di Faber, rimane.
Io non ho mai capito perché sia diventato Faber dall’oggi al domani. Lo chiamavano cosí gli amici? Bene solo i suoi amici allora avrebbero dovuto chiamarlo cosí.
Poeta, ribelle, sperimentatore, artista anarchico: alcuni degli epiteti coccodrilleschi.
Paolo Villaggio, un suo grande amico, lo definì insopportabile, antipatico, un beone lunatico. A me non è mai piaciuto. Molto alcune sue canzoni, veramente belle, ma nei confronti del personaggio, della persona ho sempre avuto riserve. In breve, mi è sempre sembrato uno stronzo.